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duetart - Konrad Klapheck

Konrad Klapheck

vedi opere:
Temptation
Ignudi illuminati - Ritratti
Oggetti umani - Paesaggi dell'anima
Dreams on paper
Camera con vista - Opere storiche
Per amore solo per amore
Habe dank, Konrad


Tributo a Konrad Klapheck

Konrad Klapheck nasce nel 1935.
Studia Storia dell'Arte alla Kunstakademie di Dusseldorf e dal 1954-58 studia pittura con prof. Bruno Goller alla Kunstakademie di Dusseldorf.

Nel 1956 conosce Max Ernst ed entra in contatto a Parigi con André Breton e il gruppo dei pittori Surrealisti con i quali esporrà le proprie opere.
Prima mostra personale alla Galerie Schmela di Dusseldorf nel 1959 e inizio della sua collaborazione con Arturo Schwarz nella cui Galleria di Milano esporrà in mostre personali nel 1960/63/68 e 1972.
Dal 1979 è professore insegnante per pittura alla Kunstakademie di Dusseldorf.

Sue opere sono nelle collezioni dei più prestigiosi musei del mondo. Il suo lavoro è rappresentato dalla Galerie Lelong di Parigi e dalla Galerie Wittrock di Dusseldorf.

Konrad Klapheck (Düsseldorf 1935) rappresenta nei suoi quadri il mondo meccanico dei piccoli strumenti della casa e dell'ufficio, indagando il maschile e il femminile con gli oggetti dell'uso quotidiano. Frutto di uno sguardo analitico e lucido, avvolti da un alone di verità e di pietà ricca di tenerezza, gli oggetti si stagliano silenziosi in una ieratica solitudine, metafore delle miserie e delle grandezze dell'uomo, declinati al maschile (le macchine da scrivere, gli utensili, il telefono) o al femminile (il ferro da stiro, la macchina da cucire), o chiamati a rievocare il mondo dei bambini, come la serie dei campanelli di bicicletta che risuonano del fascino di tutte le infanzie. Veri e propri ritratti, spesso autoritratti, le opere dell'Artista vanno comprese alla luce del titolo che le descrive, le racchiude e le congeda, inserendo i frammenti della sua visione del mondo nel mondo più grande di una commedia umana (che spesso ha i colori della tragedia) dove tutto è possibile, dove tutto trova la sua armonia e la sua legge.


IGNUDI ILLUMINATI - RITRATTI

Konrad Klapheck
Porträtzeichnungen
1992-2002

Linee di voluttà, linee di precisione
Ritratti come tentativo di un’autobiografia

Insieme alla mia compagna Wanda mi trovavo nell’estate del 1992 in Francia, in un bungalow sulle rive dell’Atlantico. Pioveva quasi ininterrottamente. In una pausa tra due rovesci Wanda si affrettò verso il mercato del posto e tornò con due carciofi che cominciò a disegnare. Niente pranzo per quel giorno dunque, ed io presi dalla veranda completamente bagnata dalla pioggia una pigna caduta a causa del vento e per quattro lunghi giorni la raffigurai in modo iperrealistico. Poi Wanda, che aveva frequentato l’Accademia d’arte a Düsseldorf e per tanti anni aveva lavorato come costumista, mi disse che voleva farmi il ritratto. Io acconsentii a patto che anche lei fosse disposta a sua volta a farmi da modella. Così ci raffigurammo a vicenda per alcuni giorni. Pioveva ancora e di nuotare o fare una passeggiata non se ne parlava. Infine Wanda mi chiese imbarazzata se ero disposto a farmi ritrarre nudo per lei. –“Naturalmente, era quello che anch’io volevo chiederti”– In tal modo si sviluppò un programma regolare. Ogni giorno dopo il riposo pomeridiano e l’ora del tè spostavamo le poltrone coperte da federe dei nostri ospiti assenti e giocavamo alla lezione di disegno.
Era dai tempi dell’Accademia che non facevo ritratti. All’epoca il ritratto era al centro della mia attività.  Quando avevo undici anni mia madre mi mostrò, in un libro di disegni di Dürer, il suo primo autoritratto. “Questo lo ha fatto quando aveva quattordici anni”, mi apostrofò. Lo stesso giorno mi misi davanti allo specchio e a mia volta mi cimentai in un autoritratto. Avevo pur sempre ancora tre anni per raggiungerlo… Il mio insegnante di disegno a scuola fu insoddisfatto del risultato. “Lascia perdere i tratteggi incrociati alla Dürer. Comprati un carboncino e crea delle ombre compatte. Ma soprattutto non dimenticare di delineare lo sfondo a zone grigie.” Attenendomi alle sue istruzioni rappresentai i miei compagni di scuola, le vecchie signore che facevano parte della cerchia di conoscenze di mia madre e ancora sempre autoritratti.
Durante il mio primo semestre accademico dipinsi anche dei ritratti a olio e pensai perfino di trarne un certo guadagno. I miei modelli erano il mio compagno di studi poeta, l’amato custode dell’Accademia d’Arte, la mia paziente amica Lilo (50 sedute!) e mia madre.  Come punti di riferimento avevo Ingres e Otto Dix. In un autoritratto mi ero raffigurato con un pennello in mano, al cavalletto, su cui si poteva vedere un quadro appena iniziato con  una doccia abbozzata. Ciò mi divertì talmente che lo trasformai nel tema a sé stante di un altro quadro. Così scivolai dentro il mondo delle cose, il mondo della tecnica minuta della quotidianità, e mi lasciai per sempre alle spalle, così almeno pensavo, i ritratti.
Mi ero esercitato per un anno intero nel disegno su modelli maschili e femminili alle lezioni di Bruno Goller. Volevo imparare a disegnare in modo corretto, delineando attentamente i contorni, riempivo le ombre di un grigio tenue per poi marcare con un nero profondo le ombre proiettate del mento e del petto. Un giorno, come preso da una sorta di ebbrezza, disegnai in pochissimo tempo ed in modo spontaneo diversi nudi. Si poteva dunque disegnare anche senza un’accurata preparazione e quasi senza pensare, posto che si conoscessero gli elementi base dell’anatomia. Il professor Goller, quando gli consegnavo i miei disegni al tavolo delle correzioni, era per lo più scostante verso i disegni a pennello, mentre approvava con entusiasmo del tutto antipedagogico i miei rapidi profili senza criterio.  Mi trovavo in una situazione atipica per una scuola d’arte. Per me stesso disegnavo in modo accademico e per il mio insegnante alla leggera, alla Matisse.
Con il ritratto di Wanda cominciai di nuovo, dopo trentacinque anni, con molta attenzione e accortezza e mi permettevo solo delle volte a fine seduta un qualche tratteggio spontaneo. Al termine della vacanza le due maniere coincidevano e volevo ora disegnare con precisione e trasporto. Anche dopo le ferie avevo voglia di disegnare ritratti, ed iniziai –spesso insieme a Wanda– a ritrarre i colleghi dell’Accademia d’arte di Düsseldorf, dove insegnavo ora. Gli artisti sono i migliori modelli. Ogni posa, anche quella più scomoda, veniva accettata, e i miei disegni, somiglianti o meno, ottenevano commenti incoraggianti. Le cose cambiavano quando andavo dagli impiegati del palazzo, portieri, fuochisti e segretarie. Allora non veniva osservato lo slancio della linea o l’arditezza nella suddivisione dello spazio. Allora si diceva: “Ho davvero delle gambe così grasse?”, oppure “Non mi può togliere il doppio mento?”.
Mi venne in mente il racconto del mio insegnante di disegno a scuola, che durante la prigionia in guerra ritraeva gli ufficiali russi per un tozzo di pane: “Fino a quando cercavo di creare un ritratto somigliante, ottenevo solo che aggrottassero le ciglia. Alla fine ne venni a capo tenendo presente che mi venivano richieste spalle larghe ed una esatta riproduzione delle decorazioni”. Ma anche collezionisti e direttori di museo con quadri di Tàpies e Fontana alle pareti volevano essere ritratti più giovani e autorevoli, e qualche disegno che io ritenevo somigliante suscitò un’irritazione a stento trattenuta. Approvazione ottenni invece da Jean Frémon della galleria Lelong, che mi spinse ad estendere la mia attività in Francia, e dal suo collaboratore Patrice Cotensin, che più volte ci organizzò una maratona di disegno minuziosamente programmata. A New York in seguito la mia amica Celia Ascher lottò per ottenermi degli appuntamenti. “You should do it as an artist for an artist” la sentivo dire al telefono ad aspiranti modelli. Tutti gli uomini del globo terrestre non potevo disegnarli. Mi concentrai così sui principali rappresentanti della scena artistica. Rinnovai l’amicizia con colleghi che non vedevo da molto tempo, mi riconciliai con critici con i quali avevo avuto dei dissensi e insieme con Wanda feci la conoscenza di nuovi stupendi amici. Dopo anni di solitudine in atelier ora divenni quasi mondano. E scrissi subito dopo un’autobiografia in forma di ritratti di persone che avevano avuto un ruolo nella mia vita. Per alcuni di loro ciò avvenne troppo tardi. Penso al mio primo insegnante di disegno a scuola, Kurt Prechtl, al gallerista Alfred Schmela che per primo mi organizzò una mostra, e ad André Breton che mi aveva dedicato il suo ultimo testo.
Aspiravo a disegnare ritratti a figura intera. Volevo guardare le persone in modo obiettivo come le macchine dei miei quadri, e trovai che braccia e gambe si prestassero a ciò. Inoltre i modelli rivelavano spesso nelle loro pose qualcosa del proprio carattere. Mi erano ben accette sedie e poltrone possedute dai soggetti rappresentati, in quanto segni del loro stile di vita e del loro gusto. All’inizio avevo disegnato con gessetti e carboncini in legno su mezzi fogli Ingres di marca Hahnemühle, in seguito passai ai carboncini normali e ai fogli interi. Un primo schizzo serviva alla somiglianza sommaria e alla composizione dell’insieme. Ricalcando su di un secondo foglio messo in posizione leggermente sfasata potevo modificare la composizione, copiare le linee giuste e correggere quelle sbagliate. In un terzo tentativo raggiungevo per lo più il risultato definitivo.
Alcuni ritratti li disegnai con la fantasia avvicinandomi alla caricatura (Lüpertz, Ruhrberg, Stella). Con l’ausilio di foto che a volte scattavo dopo la seduta, mai prima, riuscivo a migliorare la somiglianza. A volte ero costretto a ricopiare insieme singole parti ben riuscite da fogli diversi nel complesso falliti e in ciò la fotocopiatrice mi fu preziosa per gli ingrandimenti e i rimpicciolimenti. La restauratrice di libri Elke Huperz mi ha incollato un paio di teste ridisegnate su dei corpi già pronti (Gershuni, Neiman, Scheps). Nonostante tutti gli occasionali trucchi il mio principale desiderio rimaneva sempre quello di ottenere un risultato sul campo, disegnando e dialogando col modello.
In Cina avevo scoperto l’arte della calligrafia e la sua bellezza nata dall’improvvisazione spontanea.
Come una compensazione per i lunghi anni di rifiniture ai miei quadri, nel ritratto mi si offrì la possibilità di fissare l’ispirazione con rapidi schizzi spontanei. Precisi malgrado la semplificazione, inscritti nello spazio della carta bianca con nervosismo e tensione: così desideravo i miei disegni. Linee che fossero allo stesso tempo voluttuose e precise.
Oggi mi ha fatto da modello l’organizzatore di mostre Harald Szeemann nella sua fabbrica rosa a Maggia nel Ticino. Mentre io disegnavo e lui raccontava dei suoi viaggi e progetti, fuori scrosciava una pioggia che sembrava non volesse terminare, una situazione rassicurante, piacevole. E così ho dedicato le pagine che ora scrivo sul treno per Zurigo, in viaggio verso nuovi appuntamenti per ritratti, alla pioggia a Cap-Ferret sull’Atlantico e alla mia critica, rivale e compagna Wanda.


OGGETTI UMANI - PAESAGGI DELL'ANIMA

Konrad Klapheck
paragona l’atto del dipingere a una seduta psicanalitica, nella quale il paziente, sdraiato sul lettino, racconta al dottore il suo sogno cercando di trovarvi un significato: “Ecco, il quadro è il mio sogno e il titolo arriva alla fine, per associazione d’idee, in maniera semiautomatica, fornendo una possibile chiave di lettura a quello che anche per me rimane un enigma. Il quadro è sempre più intelligente dell’autore!”.

Per l'artista di Düsseldorf dipingere è da sempre un modo per rivisitare il passato, fare affiorare i ricordi e affrontare le difficoltà della vita presente. La sua autobiografia per immagini si sviluppa a partire dalla metà degli anni Cinquanta attraverso ritratti di macchine e oggetti quotidiani della casa e dell’ufficio, dipinti con fredda e semplificata precisione, contorni marcati e tagli prospettici arditi. Uno stile che si rifà da un lato al realismo classico e distaccato della Nuova Oggettività, dall’altro agli “oggetti a funzionamento simbolico” creati dai surrealisti -Klapheck incontrò a Parigi Marcel Duchamp e dal 1954 intrattenne rapporti di amicizia e scambio con Max Ernst, André Breton e René Magritte-.  La Macchina per scrivere del 1955 è il primo quadro di una lunga serie, che lo impegnerà per oltre cinquant’anni. In una sorta di Recherche di sapore proustiano, Klapheck evoca sulla tela quegli oggetti che compongono il mondo meccanico della sua infanzia. La macchina per scrivere, ad esempio, era quella che usava la madre, Anna Strümpell, storico dell’arte e professoressa all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf: “Mia madre scriveva sempre. Il ticchettio della tastiera della sua macchina è la musica della mia giovinezza”, ricorda l’artista. Dopo la macchina per scrivere, è la volta della macchina da cucire: “I dieci oggetti fondamentali della mia pittura stanno in una sequenza prestabilita, determinata dalla loro apparenza esteriore e dal loro scopo di applicazione. Macchina per scrivere e macchina da cucire sono in testa al gruppo. La macchina per scrivere serve alla comunicazione, all’astratto ordinamento del mondo. La macchina da cucire che fabbrica abiti provvede al mondo della corporeità. Ci sono analogie formali fra la macchina da cucire e il suo antitetico, la macchina per scrivere: il tasto si trasforma in spoletta, il nastro d’inchiostro in filo, la matrice in ago”. Klapheck divide dunque il suo mondo pittorico in due ambiti, quello dell’ordine astratto e quello della corporeità. Un sistema originale di analisi della realtà che permette infinite variazioni sia sugli stessi soggetti -esistono più di quaranta versioni di macchine per scrivere dipinte da Klapheck nel corso della sua carriera e l’ultima, “Il linguaggio dei potenti”, del 2005, viene presentata proprio in occasione di questa mostra- sia sulle macchine appartenenti alle stesse “famiglie di oggetti”: “Il rubinetto, anch’esso votato al benessere corporeo, appartiene alla famiglia della macchina da cucire. La sua parte superiore, il rubinetto vero e proprio per aprire e chiudere l’acqua, corrisponde alla spoletta della macchina da cucire; dove in quella viene cucito il filo, qui scorre il getto d’acqua. Sorella del rubinetto è la doccia, che formalmente conduce al telefono…”. Nasce così quell’inventario surreale della civiltà delle macchine composto da ferri da stiro, scarpe, chiavi, seghe, pneumatici, biciclette, campanelli per biciclette, orologi, metafore ironiche o aggressive che anticipano la Pop art nella sua esaltazione degli oggetti banali e quotidiani. La pittura di Klapheck è però caratterizzata da uno sguardo partecipe, colmo di affetto e tenerezza per quegli utensili che l’hanno accompagnato o lo accompagnano nella vita di tutti i giorni. Li ritrae isolati nella solitudine della tela, quasi come fossero esseri umani. Scova in ognuno di loro una personalità nascosta, mantenendone però sapientemente intatta l’aura di mistero. Come diceva Magritte, l’artista deve fare della pittura uno strumento che approfondisca la conoscenza del mondo, “ma una conoscenza che sia inseparabile dal suo mistero”.

Dal 1997 Konrad Klapheck, oltre che agli oggetti, si è dedicato con grande passione anche alla figura. Se gli oggetti paiono personaggi dotati di vita propria, le figure umane sono ritratte con una fissità che le rende simili agli oggetti. Un grande ciclo in stile classicista è ispirato ai protagonisti della musica jazz, alcuni dei quali hanno posato per l’artista a Parigi. Come il padre del free jazz, il musicista americano Archie Shepp, del quale in mostra è presente uno splendido ritratto. I temi di questa serie ruotano attorno al rapporto tra il musicista (ovvero l’artista) e il suo pubblico: la solitudine del palcoscenico che mette sotto i riflettori miserie e grandezze dell’uomo, il problema della comunicazione con una platea talvolta indifferente, ma anche l’estasi che viene dalla condivisione con il pubblico di un'esperienza estetica esaltante.

Un altro ciclo recente è invece dedicato a interni e paesaggi con nudi. Qui fonte d’ispirazione sono da un lato le fotografie erotiche dell’Otto e Novecento, dall'altro i capolavori dei grandi maestri. Ad esempio, nel dipinto del 2006 intitolato “La strada II”, che raffigura una prostituta nell'androne di un vecchio edificio e un giovane seduto su uno sgabello intento nella lettura di un libro di preghiere, il richiamo è al Tiziano di Villa Borghese, “Amor sacro e amor profano”. Nella sua galleria di personaggi sfilano dunque ricordi, speranze, paure e suggestioni infantili, in un mix di rimandi, assonanze, citazioni e messaggi che Klapheck si diverte a mescolare, com'è nel suo stile, vero e falso, realtà e finzione, non per disorientare o depistare lo spettatore, ma per arrivare a una più profonda conoscenza del mondo. “La pittura non cessa mai di stupire, ci sono sempre sorprese anche per l'artista. La vicinanza della pittrice Wanda, i suoi consigli, mi sono indispensabili per fare chiarezza”, conclude Klapheck. Gli fa eco Wanda Richter-Forgách: “Il giudizio dell'altro è prezioso in ogni fase del lavoro. Siamo l'uno il critico più severo dell'altro”. Nata a Berlino, alle spalle la lunga esperienza, dal 1963 al 1986, come costumista per oltre duecento produzioni teatrali a fianco dello scenografo Thomas Richter-Forgách, la pittrice si è fatta apprezzare per alcune delicate nature morte e per i suoi “Ignudi illuminati”, la serie di nudi dipinti a partire da bozzetti realizzati durante soggiorni nei luoghi termali. Ora a Varese presenta un nuovo ciclo di paesaggi, dipinti ad acrilico negli ultimi cinque anni, nei quali acqua, cielo e terra sono le quinte di un teatro dell'immaginazione. Soggetto delle tele non sono infatti luoghi precisi, facilmente identificabili grazie a qualche indizio. La sfida della pittrice non è la descrizione di un ambiente, ma la registrazione di un'illuminazione, di un'epifania. La pittura non è racconto, ma visione. I modelli vanno da Rembrandt a Bellini, a Van Gogh, ma è Marc Rothko la grande ispirazione. La produzione giovanile dell'artista americano, caratterizzata da una figurazione surrealista e da paesaggi fantastici, manifesta già la predilezione per il colore puro, sempre intenso e di vibrante luminosità, sul quale Rothko fonderà la sua successiva adesione a un astrattismo contraddistinto dagli ampi campi di colore e dall'attento studio dei rapporti cromatici. “In realtà Rothko nelle interviste dichiarava di non considerarsi affatto un artista astratto”, dice Wanda. “Non dipingeva quadri astratti, la pittura era per lui la trascrizione fedele della sua vita spirituale. Ed è questa anche la mia ambizione”. Si spiega così la scelta del titolo “Paesaggi dell'anima”, che allude a una forma di romanticismo contemporaneo, dove la Natura è intesa come luogo dell'immersione e dell'esperienza spirituale dell'individuo e la pittura sgorga dall'urgenza di dare espressione alle inquietudini dell'anima. Per cogliere quella forza creatrice che è nella Natura e che parla come per simboli dell'interiorità dell'uomo, l'artista si dedica a un attento e partecipe studio del paesaggio. Wanda ha sempre avvertito una forte esigenza di concretezza e il punto di partenza è dunque il dato reale, anche se non immediatamente riconoscibile perché filtrato dall'io dell'artista. Astrazione per Wanda vuol dire ridurre all'essenza il sentimento della natura, e gli strumenti per raggiungerla sono il blu, il rosso o l'arancio tanto amati da Rothko. L'interpretazione del paesaggio avviene dunque attraverso il medium del colore, talora più soffuso, stemperato e morbido, talaltra più denso, irruente e viscerale. Predilige determinati momenti del giorno, la mattino o la sera, quando l'ambiente naturale si presta a più dirette correlazioni psicologiche. Nascono così visioni vibranti di colore che divampa sulla tela con una vitalità intensa, come un incendio improvviso che tutto illumina prima di tutto distruggere. Vita ed energia prima della morte e della cenere.

Talvolta la tela è tagliata in due dalla linea dell'orizzonte (“Speranza, stella della sera”, “Fiume della vita”), come se cielo e acqua se la contendessero: “Una lotta senza fine tra elementi contrapposti”. Nelle tele nate durante un soggiorno a Parigi gli avversari sono invece il fiume e l'architettura del ponte. Nelle acque della Senna l'artista vede risplendere una bellezza pura, totale, incontaminata  che viene solo parzialmente contenuta dagli argini. Sotto le arcate del ponte la vita continua a scorrere.

Licia Spagnesi


DREAMS ON PAPER

Una musica segreta

Hai presente la danza che il suono disegna quando lascia lo strumento e percorre l’aria, superando le teste del pubblico? Conosci l’attimo sospeso in cui le note non sono più solo del musicista ma arrivano dentro il tuo mondo interiore come un ponte che attraversa la mente?
Vedendo le opere della mostra ‘Dreams on Paper’, ho pensato al clima di un concerto jazz, nell’istante in cui la vibrazione commovente di un momento di solista percorre le teste del pubblico estasiato, rubato alla vecchia anima razionale per ricongiungersi alla nuova anima dell’emozione e dei ricordi, delle visioni e delle idee.
Conosco l’opera di Konrad Klapheck fin dalle origini surrealiste, ho ammirato le macchine e le figure umane degli ultimi vent’anni, ma quando ho osservato con desiderio febbrile questi disegni inediti mi sono sentita trascinata in una dimensione parallela, dove tutto è credibile.
Ho provato l’incanto di individuare – alternati come in un dialogo appassionato tra legni e ottoni - lo stupore curioso dell’infanzia, il possesso consapevole della giovinezza e la sete ancora grande di sogni dell’uomo che possiede un variegato archivio di conoscenza del reale ma sa concepire con forza vivace l’oltre e l’altrove. Dove noi incontriamo stupiti un mondo immaginario, risiede il mondo più vero del vero dell’artista.
Con una vitalità sorprendente ma in fondo annunciata, Klapheck offre una prospettiva insolita per comprendere la grammatica elaborata della sua poetica: dal ‘non colore’ degli inizi all’esplosione della meravigliosa palette che – dopo la fatica del disegno – dona il momento del massino piacere; dalle macchine che rimandano all’umano, in un gioco coerente di simbolismi e riferimenti, alle figure umane che narrano un romanzo autobiografico di incredibile fascino; infine, qui, dalla geometria perfetta delle linee costruttive alla libertà d’invenzione sfrenata e felice, ribelle a ogni regola che non sia la ricerca dell’armonia compositiva e della bellezza che non trapassa.
Ho riconosciuto i temi cari all’artista, le sillabe del suo frasario, gli oggetti/soggetti del suo vocabolario intimo di uomo e di intellettuale: guizzi erotici e momenti di attenta osservazione di elementi del mondo, popolato da ricordi di letture e conoscenze e da frammenti del noto immaginario collettivo, rivisitato su misura delle fantasticherie segrete eppure generosamente condivise di questi disegni affidati a carte colorate.  Solo dopo aver indagato ogni aspetto del disegno, leggi il titolo, che completa la composizione come l’assolo virtuosistico che chiude un brano di jazz.  Klapheck, mago dei titoli, possiede il dono della sintesi con la sicurezza di chi riesce a percorrere con disinvoltura analitica le profondità della natura umana e le esprime con la sintassi del sentimento, dove alcune regole sono risolte unicamente a misura di sé.
Qui sorridono stratificazioni capaci di evocare bellezza e verità, di disegnare atmosfere dolcemente ironiche o stimolanti, che parlano - mediante fotogrammi del sogno - dell’avventura di vivere dipanata con una partitura intrigante di poche linee scure e lampi di bianco. Penso a un clarinetto che ad ogni respiro intesse un amore con il sax, creando una fusione che incanta e non delude. E forse tutta la vita dell’artista può essere paragonata ad un concerto sensazionale, dove nel pubblico si leva, alta sopra le altre, la testa di un ragazzo entusiasta, capace di rubare l’istante prezioso.
Solo alla fine ho notato che i disegni sono 32: quattro sono i punti cardinali, i riferimenti sicuri dell’orientamento e della costruzione. Lo spazio definito, il confine. Ma l’otto è senza limite, senza orizzonte o barriera, come il tempo. È il numero dell’infinito e della libertà, naturalmente.  

Isabella Colonna Preti

A secret music

Are you acquainted with the dance that the sound draws, when it leaves the instrument and moves in the air? Do you know that suspended moment in which the notes stop belonging only to the musician and arrive inside your inner world like a mind-crossing bridge?
When I saw the works of the exhibition “Dreams on Paper” I thought of the atmosphere of a jazz concert, in the instant when the moving vibration given by the soloist meets the hearts of the enraptured audience, stolen from the old rational soul in order to join the new soul of emotion, memories visions and ideas.
I have known Konrad Klapheck's work since its surrealistic origins, I have admired his machines and human figures for the past twenty years, but, when I watched with feverish desire these previously unreleased drawings, I felt drawn into a parallel dimension where everything is believable. Alternating like in a passionate dialogue between the woodwinds and the brass, I found the curious wonder of childhood, the confident mastery of youth and the still great thirst of the man carrying with him variegated archives of knowledge of the real, but also strongly able to conceive the beyond and the elsewhere. Where we, amazed, meet a swarm of chimeras, there lies the artist's world, truer than true.
With a surprising but after all heralded vitality, Klapheck offers an unusual perspective to understand the elaborate grammar of his artistic theory: from the “uncolour” of his beginnings to the explosion of the wonderful palette which, after the labour of drawing, gives the joy of the most intense pleasure;  from the machines, referring to the human in a consistent play of symbols and references, to the human figures, telling an incredibly fascinating autobiographical novel; and finally here, from the perfect geometry of constructing lines to the unlimited and successful freedom of invention, rebellious to every rule apart from the search for harmony in composition and for the beauty that doesn't pass away.
I have recognized the artist's favourite themes, the syllables of his personal language, the objects/subjects of his intimate vocabulary as a man and as an intellectual: erotic flashes and moments of sharp observation, peopled by memories from readings and knowledge and well-known fragments of collective imagination, reinterpreted on the basis of the secret but nonetheless generously shared reveries of these drawings, entrusted to coloured paper. Only after investigating every single aspect of the drawing do you read the title, which completes the composition like a virtuoso's solo closes a jazz performance. Klapheck shows the gift of being synthetic and the confidence of someone who can casually analyze the depth of human nature and express it through the syntax of feeling, in which some rules only answer to themselves.
Here you can find successful layerings that, like a smile, can evoke beauty and truth, by drawing sweetly ironic or stimulating atmospheres which, through dream-like stills, speak about the adventure of living, unravelling with an intriguing score of a few dark lines and flashes of white. I'm thinking of a clarinet that in every single sound weaves together a romance with a saxophone, creating a charming fusion that doesn't disappoint. And perhaps all the artist's life may be compared to an exceptional concert, in which, among the public, the head of an enthusiastic boy – able to steal the precious moment – stands out high above the others.
Only at the end did I notice that the drawings are 32, an even, solid and unflinching number, divisible by 4 and by 8. Four are the cardinal points, the certain references of bearing and building. The defined space, the boundary. But number eight is unlimited, without any horizons or barriers, like time. It's the number of the infinite and of freedom, of course.

Isabella Colonna Preti

FRA CIFRA E CASO

Chi non conosce il fenomeno degli scarabocchi al telefono? Quelle forme sinuose disegnate su un pezzo di carta durante una conversazione noiosa, senza intenzione consapevole a senza controllo. Terminate le chiacchiere, chi telefonava può - stupito - vedere nelle linee curve i riccioli di una bella bionda o le onde del mare, oppure, con una scrollata di capo, scegliere di gettare la carta nel cestino.

I surrealisti prendono sul serio tali abitudini infantili e creano una lunga lista di tecniche per eccitare l'immaginazione con l'aiuto del caso.

Ecco le più conosciute:
Frottage. Il disegno viene eseguito mediante il ricalco, riproducendo su carta o tela un pezzo di muro, un frammento del pavimento di legno o di uno spago disordinato.
Decalcomanie. La goccia di colore, colata e premuta fra due pezzi di carta o tela, lascia al momento della separazione una macchia con una particolare struttura, che fa pensare ad un paesaggio tropicale o artico.
Cadavre exquis. Il più famoso dei giochi surrealisti. Un gioco che nasce da un divertimento di bambini, che per me era il momento culminante di tante feste di compleanno. Ogni partecipante piegando la carta nasconde il suo contributo prima di consegnare il foglio al suo vicino per il completamento del disegno.

C'è una relazione con la mia arte? Negli anni '60 io ho sviluppato un sistema tutto diverso, per attrarre con astuzia i dèmoni del desiderio e della paura dormienti in me.

Incominciavo sempre con una linea mediana verticale rossa e con una seconda linea, anche questa mediana, però orizzontale. Partendo da questa croce rossa costruivo le mie macchine secondo le regole della sezione aurea. C'erano numerosi divieti, soprattutto quello - sempre controllato sulla croce rossa - della ripetizione di un'identica distanza fra due linee.

Il metro pieghevoole e la calcolatrice diventarono i miei strumenti più importanti.

Fino ad ora sono rimasto fedele a queste regole che mi costringevano - come la rima per il poeta - a dipingere quadri del tutto diversi dai miei progetti iniziali, quadri che sorprendevano talvolta persino me stesso.

Temevo comunque sempre di più un'eccessiva intellettualizzazione del mio lavoro e cercavo cammini addizionali per esprimermi.
Nel 1961 ero entrato in contatto con i surrealisti a Parigi. Ai loro giochi tradizionali erano stati aggiunti nuovi giochi. Fra gli altri, quello del disegno con gli occhi chiusi o di un autoritratto o di una linea ininterrotta che creava, secondo il fiume delle associazioni, una serie di soggetti: per esempio cavallo,cestino di frutta, donna nuda, cimitero.

Ritornato a Düsseldorf mi sedetti allo scrittoio nel mio studio, misi un foglio di carta davanti a me, presi un pezzo di carboncino, chiusi gli occhi e cominciai a tracciare linee sulla carta. Disegnando lasciai volare i miei pensieri. Una volta immaginai di riparare un orologio, un'altra volta di trasvolare il Gran Canyon in elicottero e alla fine di accarezzare il seno di una donna amata. Tutto il processo era decisamente erotico e trascorsi cinque minuti davvero molto piacevoli.

Quanto fu grande la mia delusione quando aprii gli occhi e vidi il risultato. Non c'era la minima composizione logica, nessun elemento si trovava al posto giusto. L'insieme aveva il fascino del discorso di un uomo mezzo sbronzo. Ciò che mancava erano buone proporzioni ed uno spazio coerente. La parola chiave per combattere tutte le debolezze era "concentrazione", una concentrazione nell'atto del disegno, che può raggiungere uno stato d'estasi.

Compresi che anche in una piccola improvvisazione dovevo investire tutta la mia esperienza, tutta la mia conoscenza di una bellezza compresa fra tensione ed armonia, tutto ciò che avevo imparato rispettando le mie regole severe. Anche se tenevo gli occhi chiusi la croce rossa continuava ad esistere invisibilmente. Dopo il momento estatico del fuoco provocante seguiva sempre una fase autocritica di ricostruzione e di interpretazione del contenuto nascosto.

Accanto alla pittura di macchine ed oggetti ho lottato per alcuni anni con il mistero della improvvisazione. Imitavo gli idoli della mia gioventù, Holbein e Baldung Grien, e sceglievo fogli di carta blu, gialla, rossa, verde e grigia. Dopo aver terminato di tracciare le linee, aggiungevo un po' di gesso bianco, talvolta solo per definire un orizzonte alla maniera del surrealista bretone Yves Tanguy, spesso per precisare spazio e volume.

Così vivo fra cifra e caso e trovo gioia in tutti e due.

Konrad Klapheck


BETWEEN FIGURE AND CHANCE

Who isn't familiar with drawing doodles while speaking on the phone? Those winding lines drawn on a paper leaflet during a boring conversation, without any conscious intention or control. At the end of the chat, the person on the phone may be surprised at recognizing in the curves a beautiful blonde's curls or the sea waves, or, on the contrary, they may simply decide to throw the leaflet into the bin with a shake of their head.

The surrealists take these childish habits quite seriously, and create a long list of techniques to stimulate imagination with the help of chance.

Here are the most widely-known:
Frottage. The drawing is made by tracing on paper or canvas a piece of wall, a fragment of wooden floor or of a disorderly string.
Decalcomania. The colour drop is poured and pressed between two pieces of paper or canvas and, when these are separated, it creates a spot with a particular structure, reminiscent of an arctic or a tropical landscape.
Cadavre esquis. The most famous of the surrealist games. It's a game deriving from a children's pastime, which was for me the climax of many birthday parties. The figures are drawn collectively. By folding the paper, participants hide their contributions before passing the leaf on to their neighbours for them to complete the drawing.

Is there a relationship with my art? In the 1960s I developed a completely different method to cunningly attract the demons of desire and fear sleeping inside me.

I always used to begin with a vertical red mid-line, followed by a second, horizontal mid-line. Starting from this red cross I used to build my machines according to the rules of the golden section. There were many prohibitions, first of all that of repeating an identical distance between two lines - which was checked against the red cross.

A folding yardstick and a calculator became my most important tools.

Until today I've been loyal to these rules, which, like the rhyme for the poet, have obliged me to paint pictures completely different from my original projects, pictures which sometimes have surprised even myself.

However, I was more and more afraid of a possible excess of intellectualizing in my work, and I was looking for additional paths to express myself.
In 1961 I had come into contact with the Surrealists in Paris. New games had been added to their traditional ones. Among others, drawing with closed eyes, self-portraying, or tracing an uninterrupted line which created a number of subjects according to the flow of associations: for example horse, fruit basket, naked woman, churchyard.

When I returned to Düsseldorf I sat down at my desk in my studio, I put a paper leaf in front of me, grabbed a charcoal pencil, closed my eyes and began to trace some lines on the paper. While drawing, I let my thoughts fly away. Once I imagined that I was repairing a watch, another time that I was flying above the Grand Canyon and in the end that I was caressing the breasts of a woman I loved. The whole procedure was extremely erotic and I spent five really pleasant minutes.

How disappointed I was when I opened my eyes and saw the result. There was no logical composition, no element was in its right place. The combination was as charming as the speech of a half-drunk man. What was lacking were good proportions and consistent space. The key-word to fight all weaknesses was “focusing”, a focus while drawing which can reach a state of rapture.

I understood that even in a small improvisation I had to invest all my experience, all my knowledge of a beauty found between tension and harmony, all that I had learned by respecting my strict rules. Even if I kept my eyes closed, the red cross continued to exist, invisibly. After the rapturous moment of provocative fire there always followed a self-critical phase of reconstruction and interpretation of hidden meaning.

Besides painting machines and objects, I fought for some years  with the mystery of improvisation. I imitated the idols of my youth, Holbein and Baldung Grien, and I chose leaves of blue, yellow, red, green and grey paper. After finishing to trace the lines, I used to add a little white chalk, sometimes only to outline a horizon, after the manner of Breton surrealist Yves Tanguy, often to define space and volume.

Thus I live between figure and chance, and I find delight in both.

Konrad Klapheck


PER AMORE SOLO PER AMORE

Dapprima con le macchine, e in seguito con le figure umane, Klapheck, artista-scrittore, narra del mondo con ironia e passione, costruendo una costellazione di opere che come astri illuminano il percorso lungo cui si dipana la sua poetica.
Inizia a dipingere ventenne, raffigurando oggetti della sua quotidianità, macchine da scrivere e da cucire, che vengono lentamente rielaborate fino ad assumere caratteristiche umane. Con lo scorrere degli anni il pantheon dei soggetti aumenta, arrivando a comprendere una decina di Macchine che, calate in differenti ruoli e impreziosite da una gamma di colori vibranti che ricordano le opere classiche, reinterpretano la realtà. Le tele sono il mezzo con cui l’artista riscopre se stesso, in un processo che assume tratti psicanalitici e di riscoperta dell’Io, i cui risultati finali stupiscono lo stesso creatore (in un parallelo con il mito di Pigmalione).
A partire dagli anni Novanta il dizionario di Klapheck acquisisce nuova vitalità grazie alle figure umane inserite in scorci di scene dalle caratteristiche teatrali, in cui l’artista può mettere a frutto le lunghe ore parigine di disegno dal vero alla Académie de la Grande Chaumière, ore di serenità e coinvolgimento.
Indubbiamente le immagini affascinano anche per il loro ermetismo, retaggio del periodo trascorso con gli artisti surrealisti della cerchia di André Breton, con i quali ha sempre sentito grande affinità di ideali.
Dipingere è una necessità, e in quanto tale comporta gioie e dolori: l’attività dell’artista, strutturata in tutte le sue componenti fisiche e mentali, appare come un atto di amore, svolto con dedizione ed impegno. Le tele diventano il luogo per lo sconvolgente incontro con il passato ed il presente: qui Klapheck sperimenta nuovamente sentimenti della sua giovinezza, o riscopre il mondo a lui contemporaneo; è il campo dove ritrovare i cari affetti, rivivere gli amori, elaborare i lutti o denunciare i comportamenti della società, servendosi sempre di ironia ed umanità.
L’umorismo che caratterizza l’artista vibra alla base di ogni sua tela: Klapheck usa i manufatti frutto dell’evoluzione tecnica per creare personaggi teatrali, tipi e maschere con cui il mito del progresso si rivela in tutta la sua umanità. Le macchine ci sono familiari, sembrano quelle che tutti noi abbiamo visto ed usato, ma abbiamo difficoltà a collocarle nello spettro delle nostre esperienze (anche perché ci sono mostrate con magnificenza e monumentalizzazione). L’artista ci pone di fronte ad un mondo che assomiglia al nostro, ma nel quale ci mancano le coordinate per orientarci; spesso i titoli sono la bussola, qualche volta lo sono i disegni preparatori ed altre volte la conoscenza delle sue esperienze biografiche.
I soggetti sono sogni, ricordi e altro ancora, raccolti con dedizione nel corso degli anni: Klapheck è esempio lampante di amore per la vita; è uno slancio forte e inarrestabile, nutrimento inesauribile per l’artista che afferma “i miei quadri contengono tutto quello che potrei dire sull’amore.”

HABE DANK, KONRAD KLAPHECK

Nel ritmo di una musica interiore


Ci disse una volta che il dolore era la prima esperienza che ricordava.
Aveva quattro anni quando morì il padre, all’improvviso, per un attacco di cuore. Aprendo l’anta dell’armadio in totale solitudine, con religioso rispetto quasi schiudesse il passaggio che portava in un mondo migliore, lo cercava nell’odore delle giacche appese, tragicamente immobili, prive di vita: simulacro e àncora di salvezza, presenza permanente e vuoto eterno. Verità immutabile e immaginazione, che tutto può.
Questa è la prima lezione dei suoi anni di formazione, quella che resterà indelebile fino a connaturare l’indole stessa di Konrad: i ricordi, figli spesso amari della realtà, leggermente deformati, sono quanto resta delle realtà perdute che possiamo tenere accanto solo attraverso i sogni, le visioni e, soprattutto, il percorso incontrollato del subconscio, cioè la mente che non dimentica niente, che accumula tutto nel grande magazzino capace di vibrare come il battito del cuore.
Era il 1939, la Germania era già in guerra da un anno. La madre, figlia di un famoso neuropsichiatra di Lipsia, sceglie di lasciare Düsseldorf e raggiunge la famiglia d’origine. Cominciano per Konrad anni di felice stordimento, di incontri straordinari e indimenticabili, tra generali russi che corteggiano la mamma e soldati semplici che si ubriacano allegramente con le ragazze. Non aveva mai visto niente di simile nella sua prima infanzia in Renania: il mondo che andava scoprendo era a colori, fantasioso come un giro sulla giostra, inatteso come un dono che non aveva neppure desiderato.
Il ritorno a Düsseldorf, alla fine della guerra, è per Konrad desolante e magico nello stesso momento. Lasciato a se stesso dalla madre che inizia a insegnare storia dell’arte, subentrando presso l’Accademia nella cattedra che era stata del marito, vaga per la città affascinato e atterrito dalla vista dei quartieri bombardati, percorrendo con la piccola bicicletta le strade che un tempo erano state adorne di splendidi viali, vetrine luminose, imponenti costruzioni. Ora è tutto polvere e calcinacci, i palazzi sventrati lasciano intravedere momenti di quotidiano di chi non c’è più, i marciapiedi sono scomparsi. I bambini nei parchi non sanno più giocare, tirano sera nelle giacchette che non li riscaldano, incapaci di spensieratezza, veloci a stringere amicizie fortissime che durano lo spazio di un pomeriggio, il tempo di una corsa insieme in bicicletta, perché mancano i riferimenti nella città distrutta e sanno che domani sarà difficile incontrarsi ancora.
Il giovane Konrad impara così la seconda lezione, girando da solo per le strade con un album degli schizzi nel tascapane: le rovine trattengono la vita precedente e il disegno può fissare per sempre il momento della morte, che è ancora una forma della vita, imprimendo sul foglio la traccia di un canto di pietà, di tenerezza, peana d’amore alla fine della guerra. La matita consente la riconciliazione con ciò che non è più, restituisce l’innocenza della vita perduta; regala la riappropriazione di tutto quello che sembrava finito, ma è solo trasformato. Il disegno insegna a Konrad a plasmare la materia fino a farla coincidere con la visione interiore delle cose, innanzitutto la città percepita nella prima infanzia, prima della morte del padre, quando il mondo sembrava un meccanismo perfetto. Poi gli oggetti, fissati nelle prime ingenue nature morte, infine i volti tratteggiati a memoria. Un giorno ci ha confidato che solo una volta aveva voluto rappresentare il padre, finalmente, e ci aveva mostrato il dipinto, che appartiene al primo ‘ciclo’, “Villa Klapheck”: un uomo in canottiera, piuttosto dimesso si affaccia alla finestra di un edificio che Konrad aveva definito ‘istituto termale’. Il figlio dopo cinquant’anni aveva vinto il lutto, e il dio perduto della sua infanzia era diventato semplicemente un uomo.
Gli anni dell’adolescenza sono ricchi di incontri e di letture, soprattutto nel microcosmo chiuso del salotto di casa dove la mamma accoglie colleghi, artisti e intellettuali per discutere della nuova società e dell’arte che tentava di interpretarla. Il ragazzo è accolto nella piccola cerchia e corrisponde con entusiasmo, desideroso di imparare tutto, scoprire nuove idee, prendere lezioni di pittura. È serio e motivato come un piccolo adulto.
La madre lo affida al maestro Bruno Goller, un collega dell’Accademia che in un primo momento si limita a mostrargli i capolavori dei grandi artisti del passato. Konrad è smanioso di cominciare a dipingere e trova piuttosto noiosi gli incontri con quel signore grigio e triste: capirà più tardi che sono state proprio le minuziose osservazioni dei capolavori del passato a donargli la visione preliminare della composizione, la chiarezza del tratto, l’equilibrio delle forme che lo compongono, la fine sensibilità per il colore, il fortissimo senso di autocritica che lo spinge a perfezionare sempre di più la tecnica e il mezzo espressivo.
Konrad frequenta il liceo con entusiasmo e ottiene ottimi voti in tutte le materie, perché è – e lo sarà sempre - competitivo, mosso da una certa ambizione di emergere senza prevaricare, di apprendere senza che la sicurezza prevalga sulla curiosità.
Quando chiede al professore di lettere se è meglio che si dedichi alla pittura o alla scrittura, questi gli risponde che potrebbe avere successo in entrambi i campi, ma lo vede soprattutto come romanziere. E anche se Konrad, lusingato, non dimenticherà mai questo incoraggiamento, sente maggiore propensione per la pittura, forse perché è un linguaggio più sintetico e allusivo, e poi gli consente di camminare nel solco tracciato dai genitori, gli permette di muoversi in un mondo che hanno studiato e amato, che hanno raccontato agli studenti con la capacità di infiammarli di entusiasmo.
Un pensiero mi attraversa improvviso la mente, mentre scrivo queste note. Nel gennaio del 2018, mentre trascorrevamo insieme – Konrad e Wanda, Antonio ed io - una breve vacanza termale a Montegrotto (l’ultima!), nel grande atrio del nostro solito albergo, vedendo quanto gli tremava la mano destra per il Parkinson che lo aveva colpito, gli ho chiesto come avrebbe fatto per la pittura, gli ho chiesto se fosse avvilito, preoccupato. E lui mi ha sorriso in modo indimenticabile e poi ha riso con i suoi occhi che sapevano tornare bambini, e mi ha ricordato l’aneddoto del suo professore del liceo: “Se non potrò dipingere, scriverò! È venuto il momento di ascoltare il suo suggerimento!”. Mi avevano commosso la sua incrollabile fede nelle sue possibilità, l’energia positiva, uno dei tratti caratteristici più affascinanti della sua personalità, il desiderio di fermare ancora, seppur con altro mezzo espressivo, il ricchissimo mondo interiore che si portava addosso, dentro le tasche sformate insieme al quaderno degli schizzi, la macchina fotografica, l’agenda dei numeri di telefono, il portafoglio più consumato che io abbia mai visto. Era carico di entusiasmo, nonostante i suoi ottantatré anni aveva lo spirito del ragazzo con gli occhi carichi di futuro; era pronto per iniziare una nuova avventura, ma la malattia ha vinto l’ultima partita che Konrad ha dovuto affrontare e i suoi romanzi, disseminati nelle sue pitture, sono rimasti nella sua testa, intatti e perfetti come anno dopo anno era andato componendo.
All’Accademia sceglie di frequentare le lezioni del professor Goller, che lo aveva conosciuto come un ragazzino assetato di arte. È Goller, che ben conosce Konrad e la sua straordinaria capacità sintetica, che dopo qualche tempo gli suggerisce di dedicarsi agli oggetti, che consentono di rappresentare in un’icona enigmatica i sentimenti più personali e segreti, senza svelare volti e nomi delle persone che hanno popolato la sofferenza sottesa ai suoi anni di crescita. Gli oggetti prescelti obbediscono alle leggi della fisica più elementare e affascinano l’artista perché, a differenza di quanto accade nella vita, obbediscono a un meccanismo dove tutto ‘funziona’ (è del 1955, Konrad ha vent’anni, la prima Macchina da scrivere). La mano che ne indaga la natura interviene sulla relazione della macchina-creatura con il mondo intorno, evidenziando di volta in volta la potenza, l’arroganza, la capacità seduttiva, la paura, tutte le sfumature dell’avventura umana che il coltissimo Konrad ha percorso anche attraverso innumerevoli letture.
I vent’anni sono il tempo meraviglioso della vita ‘fuori’, delle esperienze che tracceranno per sempre i binari all’interno dei quali Konrad si muoverà con sicurezza, senza discostarsi mai dalle prime passioni: gli incontri di box – è conquistato soprattutto da Sugar Ray Robinson -, dove si scopre tenace e competitivo, e le lezioni di ballo moderno nelle sale fiorite negli anni ‘50 lungo il Reno, occasioni che gli consentono di avvicinarsi al misterioso mondo femminile (è qui che incontra Lilo, la vivace ragazza che diventerà sua moglie). Educato secondo i canoni di una famiglia protestante, conosce finalmente la libertà e l’ebbrezza della trasgressione. Parigi, dove la madre lo incoraggia a soggiornare per imparare il francese e frequentare gli intellettuali e gli artisti, gli sembra irresistibile: lo incanta la vita della capitale dove entra in contatto con André Bréton, Max Ernst, Yves Tanguy.
Qui fa in tempo a divertirsi con loro con il gioco dei Cadaveri Eccellenti, mezzo creato dai Surrealisti per indagare come attraverso automatismi potessero affiorare il subconscio collettivo e il caos generato dal silenzio della ragione, e questa esperienza risulta fondamentale, come testimoniano soprattutto le opere su carta, che Konrad definisce ‘Disegni surrealisti’. Perché Klapheck si è sempre sentito uno degli ultimi eredi dei Surrealisti, eppure la sua opera è stata potentemente innovativa ed è andata molto più in là di quello che l’artista avrebbe potuto immaginare.
Sentimentalismo ed eros, nostalgie e disincanto, curiosità e rielaborazione dei grandi del passato e del suo tempo: tutto confluisce nella prima mostra personale del 1959 presso la galleria Schmela della sua città che con lui è generosa, indicandolo come la vera nuova voce del dopoguerra.
Ma nel 1960 l’invito della Staempfli Gallery a partecipare con un’opera alla mostra collettiva di New York “Paris Obsession”, in cui sono presenti tra gli altri Lucio Fontana e Yves Klein, testimonia come la sua voce sia ormai di portata internazionale. Ordine e caos, volontà e casualità, perché tutta la vita è costruita su questa dinamica: il gallerista italiano Leo Castelli, che sta collaborando con alcuni pittori che si esprimono con un linguaggio innovativo, visita la mostra e viene colpito dalle opere di Klapheck perché riconosce nel suo lavoro gli stessi elementi, lo stesso spirito che sta nascendo negli artisti destinati a diventare i principali interpreti della Pop Art. Pertanto, appena può vola a Düsseldorf, si reca da Klapheck e acquista sei opere. E tutti questi eventi fanno pensare che in un futuro neanche troppo lontano Klapheck sarà considerato un artista pop, anzi - se si guardano le date – perfino un precursore della Pop Art.
Ma forse Konrad non è neppure in grado di capire in quel momento la portata di tale consacrazione, è solo felice del fatto che il viaggio a New York gli abbia permesso di ascoltare finalmente dal vivo i musicisti jazz che aveva amato fin da subito, conoscendoli solo attraverso i vinili acquistati con i faticosi risparmi: Benny Goodman e Mary Lou Williams. Peccato che il favoloso Charlie Christian e la leggendaria Billie Holiday fossero già morti, Billie solo l’anno prima della mostra a New York. Tutta la vita di Konrad non sarà altro che la scelta di narrare i momenti di una introspezione coraggiosa, aggiungendo anno dopo anno capitoli che raccontano il suo mondo, respirando nel ritmo di una musica interiore che possiede il dinamismo e la malinconia di un concerto jazz.
Immagina di sentire un brano che puoi accompagnare con il battito di un piede, mentre guardi un quadro di Klapheck; immagina che all’improvviso un clarinetto o un pianoforte faccia il suo ingresso inatteso mentre ti stavi perdendo nel gioco di un altro strumento: le opere di Klapheck sono così, con una parte principale, a cui è affidato il ruolo di protagonista, e una o più parti secondarie ma fondamentali per la completezza della composizione. Può essere un guizzo di colore, una forma sorella del virtuosismo, un dettaglio che chiama lo sguardo in modo imperativo: tutto è stato concepito, progettato, disegnato e infine dipinto nel ritmo di una musica interiore che sa conciliare l’osservazione del mondo reale con il recupero di una realtà ideale, che sa “far suonare insieme” il ricordo, il sogno, un moto inconscio, la rinuncia e il desiderio, l’obbedienza e la ribellione, “la cifra e il caso”1, alla ricerca di un equilibrio perfetto conquistato attraverso la rigida pratica del disegno alla maniera rinascimentale, perché solo le linee che costruiscono la macchina antropomorfa sono garanzia di stabilità e armonia.
Tanto hanno scritto sulle Macchine di Klapheck e talvolta ha scritto lui stesso, svelando come ogni scelta, ogni ‘tipologia’ corrispondesse a un criterio denotativo determinato e certo: mogli imploranti e madri assertive rappresentate dalle macchine da cucire, uomini di potere racchiusi dentro meccanismi perfetti eppure inquietanti, macchine da scrivere che alludono a un padre perduto che rimanda a un tempo in cui l’uomo camminava lungo il Reno con il bambino per mano, bambini che attraversano il parco nella città bombardata concentrati nella poesia di un campanello di bicicletta.
Le Macchine consentono a Klapheck di raccontare frammenti di inconscio, di far emergere il complesso magma interiore senza dare un volto al sentimento che smuove le emozioni, consentono di trasformare in icona un’esperienza, un incontro, un comportamento che irrompe nel quotidiano determinando un’urgenza espressiva che solo chi vive battendo il piede a ritmo del jazz può cogliere nelle pieghe della vita. E che sia stato un grande romanziere che ha scritto attraverso le immagini è testimoniato dalla raffinatezza dei titoli, che si divertiva a tradurre personalmente in inglese, italiano e francese: tra riferimenti dotti e sottili allusioni, flirta con la grande letteratura e il cinema, ruba all’attualità, compie incursioni nella storia europea, osa giudizi ben riposti nelle categorie morali di sapore kantiano.
Più di vent’anni fa, scrivendo ad Antonio una lettera che accompagnava le opere che sarebbero state esposte nella mostra imminente, la prima che la duetart Gallery gli dedicava, Konrad ha definito le sue tele “lacrime e sangue”: specchio di sofferenza unita a una eccezionale energia reattiva, i quadri tracciano il percorso di una vita per immagini in cui non c’è demarcazione tra passato e presente e tutto ‘cammina insieme’, perché – e per un artista vale più che per chiunque altro – siamo contemporaneamente ‘tutto’ – nelle stesso momento già padri e ancora figli – e tutto quello che abbiamo vissuto è dentro di noi contemporaneamente.
L’allestimento delle opere esposte in questa mostra ‘in memoriam’ dimostra quanto profondamente Antonio conoscesse Konrad: solo un amico poteva cogliere la necessità rispettosa di far parlare i lavori in armonia con la natura dell’artista. Il visitatore si ritrova letteralmente circondato da una ampia serie di Disegni surrealisti che svelano sogni, bisogni, incubi e desideri, visioni e ricordi. Ogni opera dialoga con le altre, in un continuum che tanto assomiglia alla vita di Konrad, ed è drammatico vedere tutto oggi, due mesi dopo la sua morte. Sembra di muoversi in una ragnatela in cui sottili fili legano i diversi sogni, le diverse aperture all’altro di un inconscio complesso, articolato, a tratti misterioso come la notte, a tratti pulito e ingenuo. E i fili sapientemente tesi creano un tessuto, perché nell’artista tutto ‘è’ contemporaneamente, e non esiste passato se l’esperienza di tanti anni prima torna come vivido ricordo che domina gli occhi finché non diviene forma disegnata, liberata, autonoma e capace di emanciparsi dal suo autore. Non sono troppe le opere, come qualcuno ha osservato, come non sono troppi i pensieri che uno può avere in testa. Ci sono o non ci sono, e nel caso di Klapheck è chiaro che c’è stato un affollamento di pensieri, che l’arte gli ha consentito di sfoltire, alleggerendo l’inconscio assalito da troppe visioni. E questo Antonio l’ha capito, perché era davvero un caro amico e lo conosceva bene. La mostra, pensata così, ha voluto rendere onore alla ricchezza di immagini che hanno continuato a vivere nella testa di Konrad, mentre lui viveva. Chiari e scuri, incubi della notte e affanni del giorno, mostri della mente e rimorsi del cuore. Tutto, sempre, contemporaneamente.
Intorno ai sessant’anni, dopo essere stato in coma in seguito a una caduta, si risveglia con la necessità irrefrenabile di raccontare finalmente anche i volti che lo hanno accompagnato nel suo cammino percorso sempre nel discrimine tra immaginazione e realtà, tra voyeurismo ed esperienza concreta. Era tanto tempo che con Wanda, la compagna che lui chiamava ‘il mio critico migliore’, preparava questo momento, frequentando presso l’Académie de la Grande Chaumière di Parigi le sedute di copia dal vero di uomini e donne, giovani e vecchi che posano nudi. Disteso nel letto di ospedale, mentre durante la riabilitazione immagina il suo futuro, decide di realizzare quarantotto tele, e non gli importa se il suo pubblico innamorato delle Macchine sarà stupito, non gli importa se il suo lavoro non sarà capito. Quarantotto tele organizzate per cicli, volumi e capitoli, secondo la lezione dei Naturalisti francesi. Momenti di un grande affresco narrativo che dipingerà in ordine di urgenza, perché dopo l’esperienza del coma Konrad non sa quanto tempo avrà a disposizione e ‘lo scrittore che dipinge’ sa che ogni tela richiede tempo e implica fatica. Nascono così le serie “Villa Klapheck”, che tratteggia i momenti irrinunciabili della sua formazione umana e artistica, “Swing, brother, swing” (dal titolo della canzone di Billie Holiday, del 1939), che dichiara liricamente la grande passione per il jazz come colonna sonora della sua vita e infine “Dietro il sipario”, che svela l’occhio voyeuristico che ha guidato l’artista nei momenti in cui l’immaginazione è stata più viva della vita: ‘cicli’ con cui Konrad accompagna lo spettatore nel suo mondo fantastico eppure estremamente realistico, sotto il palco di un incontro di box o nella luce intrigante di un concerto jazz, nei segreti di una casa per appuntamenti o nel salotto di una giornata in famiglia, su una pista da ballo o nella stanza di un giovane soldato russo: tutto è tornato, pronto a prendere vita nel grande romanzo di Klapheck, che a poco più di vent’anni, incoraggiato dalla sua insegnante, aveva scritto in francese una autobiografia giovanile, raccontando i sogni e i desideri segreti come avviene in un percorso psicanalitico. Non è mai stata pubblicata, perché Konrad ha preferito aderire al desiderio dei figli, ma non c’era niente da temere in queste pagine, perché anche nella fantasia più audace non ha mai perso la totale innocenza del bambino che ancora si incanta di fronte a qualche cosa che non conosceva: sono frammenti di inconscio, Cadaveri Eccellenti tratti da una miriade di immagini tutte contemporaneamente accese nella mente, sia che si tratti di un lontano ricordo dell’infanzia, sia che si tratti di un maligno desiderio prontamente frenato.
E mi piace pensare che di fronte a una materia così vasta, ricca e intrisa di dramma come fu la sua vita, Konrad si sia immaginato nei panni del grande direttore d’orchestra Count Basie, che tanto amava, capace di dirigere i personaggi di Villa Klapheck o del ring, di risvegliare le Macchine nel momento giusto, ora prestando ascolto a un sogno, ora dando voce a una lontana visione, ora concedendo a un sentimento a lungo soffocato di entrare nella band, per cantare la sua musica. “Swing, brother, swing”, e si è divertito a concepire il tema battendo il piede come il mitico bandleader, riversando nel suo lavoro tutto se stesso, raccontando nelle tele molto di più di quello che avrebbe voluto dire. La musica interiore veniva da lontano, eppure Konrad ha saputo costantemente vivificarla, regalando nuovi capitoli che arricchiscono la trama, facendo intuire, procedendo per cerchi concentrici sempre più ampi, momenti della sua storia personale che le prime opere non avevano svelato.
Sempre l’immaginazione ha vinto sulla realtà: penso a come Konrad ha ideato il disegno del ritratto di Antonio. Era forse il 2000, era inverno. Era ospite a casa nostra, si è fermato alcuni giorni. Verso sera sono tornati in treno da Milano, hanno parlato piacevolmente per tutto il viaggio. Antonio per il freddo era stretto nel cappotto nero. La mattina al risveglio ha detto ad Antonio che voleva fargli un ritratto, e lo pregava di mettersi il cappotto che aveva usato durante il viaggio: voleva che il cappotto fosse tutto abbottonato, perché ‘fuori’ era freddo ma ‘dentro’ si doveva capire che c’era un bel caldo, perché Antonio ai suoi occhi era così. Lo ha pregato di prendere un libro e di tenerlo tra le mani, come se volesse leggerlo, perché voleva evidenziare che il suo gallerista italiano, che anno dopo anno stava diventando un amico fraterno, era un intellettuale. Ecco, è andata così: mentre accadeva la vita, lui aveva ‘visto’ l’opera.
Abbiamo trascorso centinaia di ore insieme, nelle più belle città italiane per rivedere insieme le opere di Raffaello o Piero, a Parigi, a Düsseldorf ospiti nella sua casa in Mozartstrasse o nella casa delle vacanze in Olanda. Centinaia di ore uniti nel nostro quartetto che tanto ci ha arricchiti tutti, tra discorsi sull’arte e racconti della vita, contemplazione della bellezza e momenti leggeri. Konrad sempre interessato a sapere che cosa Antonio pensasse di una mostra, di un pittore, curioso del suo punto di vista, della sua intuizione. Diversi per formazione, Konrad aveva un approccio analitico, che teneva conto di secoli di storia dell’arte, mentre Antonio all’istante sapeva capire di un quadro l’essenza, e gliela donava con la spontaneità rispettosa del fratello minore. E Konrad gli è sempre stato grato di questo, perché Antonio sapeva cogliere ciò che lui stesso faticava a vedere, perché condizionato da troppe conoscenze stratificate nel tempo. Ed è sempre stato desideroso di mostrare all’amico i suoi quadri nuovi: quando eravamo a Düsseldorf, dopo una mostra al Kunstpalast o al K21, dopo un piatto di cucina italiana presso la sua adorata trattoria Palmieri, dopo un breve riposo chiedeva ansioso ad Antonio: “Hai ancora appetito di arte?”, perché non vedeva l’ora di andare in studio, sedere nella poltrona sfondata e attendere che Antonio leggesse la nuova tela con la sua innata sensibilità. E si restava lì, nello studio con le finestre immense, nella luce naturale, fino a quando noi stessi non eravamo più che ombre incerte nel crepuscolo imminente, fino a quando non capivamo che i suoi personaggi – il ciccione nero che balla, con passo così leggero che sembra un volo, rimasto a lungo appeso alla parete, Mary Lou Williams, con il suo vestito giallo oro a pois violetti e il sorriso intrigante, Telonius Monk che galoppa con un buffo copricapo sulla tastiera del pianoforte - erano molto più vivi di noi, alla ricerca di certezze dove l’arte offre possibilità, bisognosi di stimoli per reagire di fronte a personaggi che avevano dato tutto per sfondare e riscattare la loro pelle nera, noi destinati a morire mentre loro sarebbero stati vivi – e giovani – per sempre.
Mi invade il ricordo del risveglio a casa di Konrad. Come prima cosa sentivo le note del clarinetto di Benny Goodman, forse il preferito degli ultimi anni, che arrivava dalla camera mentre Konrad si preparava. Intanto si preparava anche Antonio. Io restavo lì, perché sapevo che quella prima ora del giorno era preziosa per le loro parole senza di me. Poi la musica taceva e sentivo le sue scarpe sui gradini della scala a chiocciola, il passo veloce come quello di un ragazzo, come se Konrad fosse sempre in gara con se stesso per dimostrare che, anche se passavano gli anni, lui impiegava sempre lo stesso tempo per percorrere la distanza necessaria per arrivare in cucina. Preparava sul tavolo il latte e il mussli, il pane il burro e la marmellata di ciliegie. Preparava tè e caffè. Un pompelmo rosa tagliato abilmente nella scorza da dividere nelle nostre tre fondine. A quel punto compariva Antonio, e io li sentivo parlare e parlare, di personaggi galleristi artisti, di mostre e valutazioni, critica, analisi e sintesi di un quadro visto il giorno prima. A un certo punto arrivavo, ma cercavo di scomparire, stavo zitta perché sapevo che era meglio così, per non rompere l’equilibrio di quel risveglio perfetto. Voglio pensarlo così, che sente il clarinetto di Benny mentre si rade e prepara la colazione per tutti. Voglio pensarlo mentre corre scendendo i gradini, conservando nei piedi il ritmo della musica che si cantava ancora in testa, nel silenzio della casa. Pronto per ‘la solita giornata’, organizzata in modo quasi maniacale, eppure aperto alle sorprese della vita. Abitudinario e impulsivo, metodico e nello stesso tempo passionale, in equilibrio tra una certa durezza protestante dell’uomo e la sfrenata libertà dell’artista.
Sentiremo sempre la sua mancanza, ma guarderemo i suoi sogni e le sue visioni e non la sentiremo mai.

Isabella Colonna Preti

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