Nel suo laboratorio, un ex magazzino industriale nella zona dei Docks Dora a Torino, Pierluigi Pusole alterna lunghi momenti di riflessione a un'attività pittorica febbrile e intensa. È il ritmo che segna i tempi della sua ricerca e che gli permette di coltivare, sulla tela, agglomerati di cellule, cloni e paesaggi artificiali. Da artista-scienziato qual egli è, li ha chiamati “Experiments”. Sono dipinti del formato 50x70 o 70x100, realizzati con colori acrilici e acquerelli, combinati in dittici o in costruzioni modulari potenzialmente infinite. Declinati nelle diverse sfumature del verde o in quelle del rosso, alternano astrazione e figurazione e si moltiplicano a due a due, un po' come fanno le cellule. Le opere più grandi si sviluppano in base a un progetto organico già definito fin dal principio, o vengono assemblate con un lungo lavoro di postproduzione, finché la composizione non risulta scandita da un'alternanza equilibrata di vuoti e di pieni. I moduli vengono così combinati secondo un alfabeto personalissimo, con la logica di evocare nel profondo, prima di comprendere.
L'ordine alchemico delle immagini che circondano lo spettatore e si ripetono ossessive cattura chi guarda in modo magnetico. Appaiono ambienti lacustri e foreste popolate da uomini e donne qualsiasi, intenti in occupazioni quotidiane come camminare o trasportare oggetti. Figure, situazioni e ambientazioni ritornano con sottili variazioni e rimandi da una tela all'altra. “Mentre i paesaggi sono inventati, per i busti e le figure utilizzo come matrice fotografie trovate su riviste e giornali, che colleziono nel mio archivio”, racconta Pusole. “Con la carta da lucido le ricalco, poi con l'ingranditore le proietto per capovolgerle, rimpicciolirle, ingrandirle a piacimento, infine le inserisco nelle composizioni senza curarmi delle regole prospettiche e delle proporzioni”. Questa piccola incongruenza attrae immediatamente lo sguardo dello spettatore, che è portato a considerare con maggior attenzione questi individui dall'aria vagamente familiare. Qualche volta li vediamo soli, a tu per tu con la natura, figure che non stonerebbero in un quadro di Caspar David Friedrich non fosse che le quinte naturali che li circondano sono svuotate di pathos e prive della maestosa grandezza del sublime. Più spesso attraversano la scena in coppia, sembrano impegnati in banali conversazioni, ma i loro corpi proiettano ombre lunghissime e inquietanti. Talvolta, si scopre che l'uomo in realtà è uno solo, l'altra figura è identica ma speculare. Rappresenta forse il suo doppio, il suo alter ego, il suo clone, la sua metà oscura? Altrove il clone si affaccia all'orizzonte, apparizione gigantesca, spettrale, spiazzante. La vegetazione è rigogliosa, le acque del lago sono calme, il paesaggio non è accidentato e, anche se dipinto con un rosso e con un verde che di naturale hanno ben poco, l'impressione che se ne ricava è quella di un contesto nel complesso non ostile all'uomo. Le tele tuttavia non ispirano un sentimento di abbandono fiducioso alla natura, e, nei rari casi in cui questo si verifica, subentra la duplicazione della figura a insinuare il dubbio che si tratti soltanto di un sogno. L'artista vuole forse dare espressione ai fantasmi che agitano la coscienza contemporanea, alle ombre del cuore?
Più che la raffigurazione di una coscienza in crisi, di un'identità divisa, frammentaria, problematica, l'opera di Pusole è da interpretarsi come un affascinante esperimento, un “Experiment” appunto, la verifica di un'ipotesi sull'evoluzione della pittura.
Un'ipotesi che si riallaccia da un lato al lavoro di Andy Warhol, che nelle serigrafie attraverso la ripetizione seriale e meccanica della stessa immagine spogliava il soggetto del suo significato, dall'altro alle ricerche degli artisti concettuali, performer, compositori e coreografi che dagli anni Sessanta in poi sperimentavano l'idea di un'opera che continua, senza un inizio né una fine, né una storia da raccontare. Quello dell'artista torinese si configura dunque come un esercizio di creatività e di forme, avviato nel 1990 alla Biennale di Venezia dove la sua installazione, nella quale lo stesso soggetto veniva dipinto 160 volte, annunciava provocatoriamente l'annullamento della pittura attraverso la ripetizione manuale. Il progetto continua quindi nella serie “Io sono dio”, sviluppata dal 2000 in avanti, nella quale l'artista lavora sul paesaggio e sulla cellula come pretesti pittorici e formali da moltiplicare in strutture compositive via via più complesse. “La differenza sostanziale tra la mia ricerca e il lavoro di Warhol e dei concettuali, è che io rimango fondamentalmente un pittore, affascinato dall'aspetto manuale del mio lavoro e aperto alle sorprese che la pittura sempre riserva. Un quadro, per quanto lo si voglia teorizzare, è una cosa viva e in qualche modo sfugge al controllo dell'artista”, spiega Pusole, che, con questa nuova serie di dipinti, si dimostra autore complesso e affascinante. La sua pittura all'apparenza leggera e veloce è in realtà orchestrata su diversi piani di lettura, fino a racchiudere l'idea stessa della vita, della memoria, della natura, dello spazio e del tempo. È un'arte che produce idee, che stimola a praticare il pensiero, esaminarne i limiti, plasmarlo per elaborarlo in maniera cosciente e riflessiva.
Pierluigi Pusole è nato nel 1963 a Torino, dove vive e lavora. Dopo una formazione come pubblicitario, ha cominciato a esporre nel 1984 partecipando alle collettive organizzate nello studio dell'artista e collezionista Corrado Levi, facendosi apprezzare e conoscere per interni e paesaggi nei quali l'errore e l'anomalia fanno da filo conduttore. Dopo la serie ispirata alle interferenze sullo schermo del televisore, negli anni Novanta attraversa una fase postespressionista. Dal 2000 si dedica al progetto “Io sono dio”, culminato nel recente ciclo intitolato “Experiments”.
Licia Spagnesi
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