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Wanda Richter-Forgách
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vedi opere:
Temptation
Ignudi illuminati - Ritratti
Oggetti umani - Paesaggi dell'anima
Dreams on paper
Tributo a Wanda Richter-Forgách |
1937
Nasce a Berlino
1955-1959
Studia alla Scuola di Arti Decorative di Münster (Westfalia)
1959-1963
Studia alla Accademia delle Belle Arti di Düsseldorf (prof. Otto Coester)
1979-1990
Disegna i costumi per più di 200 produzioni realizzate da teatri internazionali
1987
Ricomincia l'attività di pittrice: espone in Germania e all'estero
2002
Mostra di ritratti (insieme a Konrad Klapheck) al Museo Kunstpalast di Düsseldorf, Germania
2012
Mostra personale Donne al Museo di Ameno, Novara, Italia
Doppia personale Oggetti umani - Paesaggi dell'Anima con Konrad Klapheck, duetart gallery, Varese, Italia
2013
Doppia personale Dreams on paper con Konrad Klapheck, duetart gallery, Varese, Italia |
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Wanda Richter-Forgách (Berlino) interpreta con delicatezza femminile i temi della nascita, della crescita e del declino, ma nella sua arte delicatezza non significa mai debolezza, bensì amore e devozione per la vita e i suoi riti di passaggio; nelle forme e nei temi dell'Artista delicatezza significa la forza di affermare che la salvezza nasce dal dolore e che solo il dolore personale rende ricchi e consapevoli, illuminati da una bellezza interiore. Amante della vita in tutte le sue forme, osservatrice dei cicli delle stagioni, Richter-Forgách per raccontare il gioco misterioso dell'erotismo sceglie i fiori perché sono simbolo di tenerezza e bellezza, di fragilità e transitorietà: l'uomo è vulnerabile, esposto alle leggi del cielo e della terra, radicato ai legami d'amore eppure flessibile e solo di fronte all'eterno. Solo le emozioni rendono ricco il cammino, e il ricordo della vita vissuta sostiene i giorni che verranno. Così la trama narrativa si dipana e si completa e i titoli scandiscono le tappe di un cammino di sensi e passioni: La Tentazione , Il Segreto, Primo Amore, Aspettativa, Battaglia dei Sessi…Anche se lo spettatore sa che i grandi fiori sono destinati ad appassire, sente che respirano di vita, e pare che da un momento all'altro un velo leggero di polline si stacchi dalla tela, per danzare con l'aria. |
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TEMPTATION
Acqua colorata
"e là m'apparve, sì com'elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond'era pinta tutta la sua via".
(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, XXVIII, 37-42)
Wanda Richter-Forgách, come Matelda di Dante, si aggira solitaria nell'incantato mondo floreale annusando, osservando, ricercando con minuziosa attenzione la regolarità della bellezza e riproducendola nelle sue opere, per trasportare su carta la perfezione della Natura.
Un compito non semplice perché l'uomo, pur avendo strumenti più sofisticati è, per sua disposizione genetica, sempre meno preciso, meno perfetto, meno ordinato della mano che ha disegnato piante vigorose e petali effimeri. Anzi, per essere più corretti, è l'essere umano che studiando ha decodificato sequenze numeriche per poi scoprire che nel mondo vegetale venivano già rispettate, perché la famosa Sezione Aurea, che nell'Ottocento "pretendeva" una millantata superiorità estetica, in Natura esisteva già dal primo giorno. Si pensi alla spirale di Fibonacci che vediamo nei gusci di lumaca, nelle pigne, nelle margherite, nelle foglie che si dispongono lungo lo stelo in modo da poter ricevere tutte la stessa quantità di luce necessaria a vivere. Si pensi anche alla disposizione dei semi nei girasoli, alle 55 spirali che ogni volta ne incrociano altre 89 orientate in senso opposto. Gli stessi girasoli il cui studio ha caratterizzato tutta la vita artistica di Vincent Van Gogh, che in una lettera al fratello Theo dichiara: "Lo sai bene: a Jeannin appartiene la peonia, a Quost la malva e a me il girasole". Oltre la simbologia c'è la forma, e viceversa, ci sono i primi pianiche il pittore dedica al fiore che ama il sole, stravolgendo i canoni tradizionali, scegliendo di inquadrare soltanto le corolle su uno sfondo che non è più bianco ma è diventato blu, verde, rosso tutto insieme.
Fiori, dunque, per Wanda che ha nei toni cromatici e nelle disposizioni spaziali analogie con la grande Georgia O'Keeffe, passaggio obblilgato quando si sceglie oggi di narrare i fiori, di avvicinarsi a quello che è stato un tema a volte celato, guardato con diffidenza, meglio, con sufficienza. Nell'Ottocento invece si arriva all'eccesso, a un'apoteosi floreale, nelle arti in genere, con il rischio di banalizzare quello che è stato metafora di fragilità e di bellezza, dell'amor sacro e del profano, della gioia di vivere e della morte.
I fiori sono simbolo di sentimenti anche per Wanda Richter-Forgách, che nella scelta dei titoli guida lo spettatore sulla retta via dell'interpretazione: non solo parole per capire, soprattutto colori, in grado ogni volta di farsi messaggeri dell'artista. Il viola di Le relazioni pericolose che, come afferma Kandisky ne "Lo Spirituale nell'arte", è freddo e allontana dall'animo umano. Il rosso, che rimanda al fuoco, al sesso e al sangue, e ricopre ne I colori dell'innamoramento un cereo anthurium dalla forma a cuore. Il bianco etereo del lilium di La sonnambula, il colore dei fantasmi notturni, incantatore, stregato, spettrale. Wanda coltiva così il suo giardino, il suo hortus conclusus, irrorandolo con acqua colorata, scegliendo in modo rigoroso le specie da coltivare, attenta a regalare ai suoi sogni su carta un dono prezioso, l'armonia.
Francesca Gattoni |
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IGNUDI ILLUMINATI - RITRATTI
Dopo due anni dalla mostra “Temptation”, Wanda Richter-Forgách ritorna alla duetart gallery di Varese, proponendo al pubblico grandi figure eredi di un’arte che attraversa i secoli e accompagna la storia e il tempo, eroine del terzo millennio che respirano nella luce del Mediterraneo tanto amato dall’artista.
Sfuggita insieme alla madre ai bombardamenti di Berlino, Wanda passò gli anni della guerra in Boemia. Dopo il ritorno in Germania studiò arti grafiche a Münster e poi pittura all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf. In venticinque anni di attività come disegnatrice di costumi per il teatro, ha esercitato il suo sguardo sull’uomo e, studiando la figura nelle sue relazioni con lo spazio circostante, ha affinato una sottile abilità nell’indagare lo spazio interiore.
Il titolo della mostra parla di ‘ignudi’, scelta raffinata, ricercata allusione dell’artista che conferma la sua abilità di narratrice di storie e di atmosfere: ‘ignudi’ sereni e ‘illuminati’ nella pace e nel silenzio dei luoghi termali, i nuovi santuari dello spirito del nostro tempo, che cerca nelle acque il nutrimento di una terra madre benigna.
Le opere sono nate dall’esperienza diretta dell’artista, che ha osservato i volti, anche quando gli occhi erano chiusi, ha ascoltato le voci, anche quando parlavano lingue diverse dalla sua, ha fissato con rapidi schizzi momenti di intimità e di amicizia silenziosa tra donne e uomini che vivono insieme un’ora di bellezza e di conoscenza delle regioni più intime dell’animo, condotti nei luoghi termali da dolori che non possono essere raccontati o tensioni che vengono da lontano e trovano nella solidale condivisione di un momento di cura il conforto tanto atteso.
Qui viene chi crede nel cambiamento, nella guarigione: ognuno porta con sé il suo essere ‘ignudo’ di fronte alla malattia, alla malinconia o alla fatica di una vita difficile o troppo convulsa: e nonostante il panno bianco indossato sia uguale per tutti, ognuno mostra chi è, stringendo le braccia nella stoffa con riserbo o sedendo come in trono con panneggi da regina, chiudendo le gambe in posa ritrosa o disegnando orgogliosa coi polpacci abbronzati leggeri passi di danza; tenendo gli occhi bassi, nel silenzio di un momento privato o cercando col sorriso altri volti, per condividere la ricerca di un’armonia dell’esistenza pur nell’assenza di salute, di bellezza e di serenità. I gesti del corpo svelano i caratteri.
Gesti timidi e sfrontati, prepotenti e modesti, discreti e impudenti nel nero del fango e nel candore dei teli che ammantano i corpi. È il dialogo dei contrasti, sempre presente nei temi dell’artista che indaga nel chiaroscuro dell’anima scegliendo, nell’infinita varietà dei grigi che descrivono le sfumature, la certezza inderogabile del bianco e del nero, categorie etiche che rinviano alla dialettica degli opposti. Nelle opere di Wanda Richter-Forgách si riconosce la mano che cerca di fondere i suoni, non di valorizzare la discordanza. La mano che vuole salvare l’amore pur nella diversità. La prospettiva che esalta la capacità di attrazione e non consente che vinca la separazione, che nel gioco dei rapporti condurrebbe solo ad una condizione di solitudine e isolamento.
L’artista ha compiuto numerosi viaggi, cercando nelle opere d’arte dei grandi le risposte alla ricerca inquieta del suo cuore, e la sua collezione di cartoline è la testimonianza di un amore totale e di un rispetto incondizionato: diecimila cartoline di affreschi e tele, dalle opere dei primitivi ai maestri del Rinascimento, dalle inquietudini barocche alle istanze innovative dei moderni e dei contemporanei. Diecimila immagini divise in ordine cronologico, per accompagnare il cammino di chi con l’arte ha narrato il mondo di dio e dell’uomo, di chi ha imitato o infranto le leggi della natura, di chi ha cercato la verità osservandola o trascendendola, ricorrendo a simboli per alludere all’ineffabile. Nature morte e ritratti, scene sacre e profane, mitologia e realtà, Crocifissioni e Madonne col Bambino, forse l’iconografia più amata dall’artista incantata da Piero della Francesca, Tiziano, Van Dyck fino ad arrivare a Mark Rothko. Diecimila opere negli occhi di chi fin dall’infanzia sapeva che differenza corre tra ‘fare’ l’artista ed ‘essere’ un’artista, negli occhi di chi, anche attraverso la lunga collaborazione negli allestimenti per l’opera e il teatro, ha studiato le forme e i volumi, le proporzioni e i rapporti, ha studiato le stoffe e i materiali, i colori e gli effetti di ogni scelta sullo spettatore.
Estro e rigore, immaginazione e disciplina. Intuizione e un acuto senso critico che spinge Wanda Richter-Forgách a non fermarsi mai, a continuare la ricerca anche tecnica e formale, come dimostrano la soluzione di dipingere coi pigmenti e la particolare abilità nel disegno a carboncino: accanto alle tele, sono esposte cinque opere che appartengono ad un’ampia ‘galleria’ di ritratti nati da sedute di posa in compagnia di Konrad Klapheck in tante città d’Europa e d’oltreoceano, in cui artisti e galleristi, musicisti jazz e direttori di musei sfilano coi loro volti e i loro tratti caratteristici: dopo dieci anni di lavoro ‘à deux’, è nata un’intrigante serie presentata in mostra nel 2002 nel museum kunstpalast düsseldorf, nella città dove gli artisti vivono e lavorano (l’editore Schirmer/Mosel ha curato la pubblicazione di un magnifico volume.) Come è possibile vedere dalle opere in mostra alla duet, il soggetto ritratto è rappresentato da una duplice sensibilità, quella maschile, di Klapheck, che ha soprattutto fissato il personaggio nello spazio e nel tempo, valorizzando con energia il suo impatto sociale, e quella femminile, di Wanda Richter- Forgách, che ha lasciato che il personaggio prendesse vita sul foglio di carta, svelando con discrezione e sottile capacità psicologica il suo mistero più intimo.
Isabella Colonna Preti |
Zwei Jahre nach der Ausstellung "Temptation" kehrt Wanda Richter-Forgách in die duetart Galerie in Varese zurück und legt dem Publikum große Gestalten vor, Erben einer die Jahrhunderte durchmessenden Kunst, welche Geschichte und Zeit begleitete, Heldinnen von heute, die in dem von der Künstlerin so geliebten mediterranen Licht atmen.
Vor den Bombenangriffen auf Berlin floh Wanda mit ihrer Mutter für die Kriegsjahre nach Böhmen. Nach Heimkehr und Schulzeit studierte sie Graphik in Müünster und Malerei an der Kunstakademie in Düsseldorf. Fünfundzwanzig Jahre übte sie als Kostümbildnerin für Theater und Oper ihren Blick auf den Menschen ein und verfeinerte durch das Studium der Figur im Verhältnis zur umgebenden Bühne die Kenntnis eines inneren Raumes.
Der Titel der Ausstellung spricht von "Ignudi illuminati", von "erleuchteten Akten", eine beziehungsreiche Wortwahl, die unter Anderem auf die Welt Michelangelos anspielt. Sie beweist aufs neue ihre Fähigkeit als Erzählerin von Geschichten und Stimmungen. Ihre "erleuchteten Nackten" sind Vertreter eines neuen Zeitgeistes, der in der Stille der Thermen Seelennahrung im Heilschlamm und in den Wassern einer gütigen Muttererde sucht.
Die Werke sind aus eigenem Erlebnis entstanden. Die Künstlerin hat die Gesichter beobachtet, auch wenn ihr zuweilen die Augen zufielen, und die Stimmen der anderen gehärt, auch wenn sie deren fremde Sprachen nicht immer verstand. In raschen Skizzen fixierte sie Augenblicke leiser und intimer Freundschaft zwischen den Männern und zwischen den Frauen, die für eine Stunde der Schönheit und der Erkenntnis der innersten Seelenbereiche zusammen-leben, aus der Ferne vom Schmerz oder von innerer Spannung herbeigetrieben, um im gemeinsamen Erleben eines heilsamen Momentes die ersehnte Tröstung zu finden.
Wer hier angelangt ist, glaubt an Wandel und Heilung. Jeder bringt mit sich seine "Nacktheit" gegenüber der Krankheit, der Melancholie oder der Mühe eines schweren und verworrenen Lebens. Das verhüllende weiße Tuch ist für alle das gleiche, und doch zeigt ein jeder, wer er ist: In der Art, wie er oder sie die Arme behutsam ins Gewebe drückt, oder wie ein Herrscher auf einem Thron aus Faltenwürfen mit abweisend geschlossenen Beinen sitzt, oder mit gebräunten Waden selbstverliebt leichte Tanzschritte zeichnet. Manche halten in der Stille eines privaten Momentes den Blick gesenkt oder schauen sich lächelnd um auf der Suche nach Anderen, die auf eine Harmonie der Existenz hoffen.
Schüchterne und freche, anmaßende und bescheidene, schamhafte und auftrumpfende Gesten im Schwarz des Schlammes und im Weiß des die Körper bedeckenden Tuches. Ein Dialog der Kontraste wohnt den Bildern der Künstlerin inne, die in das Halbdunkel der Seele schaut und aus der unendlichen Vielfalt der Farben und des Graus die unumgängliche Gewißheit des Weiß und des Schwarz wählt, ethische Kategorien in der Dialektik der Widersprüche. In den Werken von Wanda Richter-Forgách erkennt man die Hand, die ohne Dissonanzen auszukommen und die gegensätzlichen Klänge zu verschmelzen sucht, die Hand, die die Liebe auch in der Verschiedenheit retten will. Eine Sichtweise, die die Anziehungskraft feiert und nicht zuläßt, daß Trennendes zu Isolation und Einsamkeit führt.
Auf der Suche nach Antworten auf die Fragen eines unruhigen Herzens, hat die Künstlerin auf vielen Reisen eine Sammlung von Kunstpostkarten zusammengetragen, Zeugnisse hingebungsvoller Liebe und bedingungslosen Respekts: Zehntausend Postkarten von Fresken und Bildern auf Holz und auf Leinwand. Von den Werken der Primitiven zu denen der Meister der Renaissance, von der Unruhe des Barock bis zu der umstürzlerischen Erneuerung unserer Zeit. Bilder, in denen sie den Weg derer nachvollzieht, die mit Hilfe der Kunst von der Welt der Menschen und Götter erzählten, die Naturgesetze nachahmten oder brachen, die die Wahrheit suchten im Betrachten oder im Transzendieren und für das Unsagbare in Symbolen. Stilleben und Porträts, heilige und profane Szenen, Mythologie und Realität, Kreuzigungen und - der Künstlerin besonders lieb - die Madonna mit Kind von Piero della Francesca, von Tizian und Van Dyck bis zu Mark Rothko. Zehntausend Werke, ausgewählt mit Augen, die schon früh den Unterschied kannten, der darin besteht "als Künstler zu wirken" oder "Künstler zu sein". Direkte Inspiration bezog sie von den Fresken des antiken Pompeii, wo vor terracottafarbenen Hintergründen machtvolle Gestalten die Wände der luxuriösen Villen schmückten, ehe der glühende Lavastrom Häuser und Menschen unter sich begrub.
Eingebung und Disziplin, Intuition und Selbstkritik, die Wanda Richter-Forgách antreiben, nie anzuhalten auf der Suche nach künstlerischem und technischem Fortschritt, so in jüngerer Zeit im Experimentieren mit Naturpigmenten in Pulverform und im wirkungsvollen Gebrauch eines archaischen Kunstmittels, des Kohlestifts.
Neben den Bildern auf Leinwand sind fünf große Kohlezeichnungen ausgestellt, die zu einer Porträtgalerie gehören, die in gemeinsamen Sitzungen mit Konrad Klapheck in den großen Städten Europas und der USA entstand, eine Enzyklopädie von Vertretern der Kunstszene, von Künstlern, Sammlern, Galeristen, Museumsleitern, Kritikern und einigen Musikern. Dabei ist die Sicht der beiden Künstler völlig verschieden: Während Klapheck, die soziale Stellung betonend, die Modelle in Raum und Zeit fixiert, läßt Wanda Richtger-Forgách das Individium auf dem Blatt aus Ingres-Papier zur Welt kommen und enthüllt mit diskreter Psychologie die intimsten Geheimnisse der dargestellten Person.
Isabella Colonna Preti |
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OGGETTI UMANI - PAESAGGI DELL'ANIMA
Konrad Klapheck paragona l’atto del dipingere a una seduta psicanalitica, nella quale il paziente, sdraiato sul lettino, racconta al dottore il suo sogno cercando di trovarvi un significato: “Ecco, il quadro è il mio sogno e il titolo arriva alla fine, per associazione d’idee, in maniera semiautomatica, fornendo una possibile chiave di lettura a quello che anche per me rimane un enigma. Il quadro è sempre più intelligente dell’autore!”.
Per l'artista di Düsseldorf dipingere è da sempre un modo per rivisitare il passato, fare affiorare i ricordi e affrontare le difficoltà della vita presente. La sua autobiografia per immagini si sviluppa a partire dalla metà degli anni Cinquanta attraverso ritratti di macchine e oggetti quotidiani della casa e dell’ufficio, dipinti con fredda e semplificata precisione, contorni marcati e tagli prospettici arditi. Uno stile che si rifà da un lato al realismo classico e distaccato della Nuova Oggettività, dall’altro agli “oggetti a funzionamento simbolico” creati dai surrealisti -Klapheck incontrò a Parigi Marcel Duchamp e dal 1954 intrattenne rapporti di amicizia e scambio con Max Ernst, André Breton e René Magritte-. La Macchina per scrivere del 1955 è il primo quadro di una lunga serie, che lo impegnerà per oltre cinquant’anni. In una sorta di Recherche di sapore proustiano, Klapheck evoca sulla tela quegli oggetti che compongono il mondo meccanico della sua infanzia. La macchina per scrivere, ad esempio, era quella che usava la madre, Anna Strümpell, storico dell’arte e professoressa all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf: “Mia madre scriveva sempre. Il ticchettio della tastiera della sua macchina è la musica della mia giovinezza”, ricorda l’artista. Dopo la macchina per scrivere, è la volta della macchina da cucire: “I dieci oggetti fondamentali della mia pittura stanno in una sequenza prestabilita, determinata dalla loro apparenza esteriore e dal loro scopo di applicazione. Macchina per scrivere e macchina da cucire sono in testa al gruppo. La macchina per scrivere serve alla comunicazione, all’astratto ordinamento del mondo. La macchina da cucire che fabbrica abiti provvede al mondo della corporeità. Ci sono analogie formali fra la macchina da cucire e il suo antitetico, la macchina per scrivere: il tasto si trasforma in spoletta, il nastro d’inchiostro in filo, la matrice in ago”. Klapheck divide dunque il suo mondo pittorico in due ambiti, quello dell’ordine astratto e quello della corporeità. Un sistema originale di analisi della realtà che permette infinite variazioni sia sugli stessi soggetti -esistono più di quaranta versioni di macchine per scrivere dipinte da Klapheck nel corso della sua carriera e l’ultima, “Il linguaggio dei potenti”, del 2005, viene presentata proprio in occasione di questa mostra- sia sulle macchine appartenenti alle stesse “famiglie di oggetti”: “Il rubinetto, anch’esso votato al benessere corporeo, appartiene alla famiglia della macchina da cucire. La sua parte superiore, il rubinetto vero e proprio per aprire e chiudere l’acqua, corrisponde alla spoletta della macchina da cucire; dove in quella viene cucito il filo, qui scorre il getto d’acqua. Sorella del rubinetto è la doccia, che formalmente conduce al telefono…”. Nasce così quell’inventario surreale della civiltà delle macchine composto da ferri da stiro, scarpe, chiavi, seghe, pneumatici, biciclette, campanelli per biciclette, orologi, metafore ironiche o aggressive che anticipano la Pop art nella sua esaltazione degli oggetti banali e quotidiani. La pittura di Klapheck è però caratterizzata da uno sguardo partecipe, colmo di affetto e tenerezza per quegli utensili che l’hanno accompagnato o lo accompagnano nella vita di tutti i giorni. Li ritrae isolati nella solitudine della tela, quasi come fossero esseri umani. Scova in ognuno di loro una personalità nascosta, mantenendone però sapientemente intatta l’aura di mistero. Come diceva Magritte, l’artista deve fare della pittura uno strumento che approfondisca la conoscenza del mondo, “ma una conoscenza che sia inseparabile dal suo mistero”.
Dal 1997 Konrad Klapheck, oltre che agli oggetti, si è dedicato con grande passione anche alla figura. Se gli oggetti paiono personaggi dotati di vita propria, le figure umane sono ritratte con una fissità che le rende simili agli oggetti. Un grande ciclo in stile classicista è ispirato ai protagonisti della musica jazz, alcuni dei quali hanno posato per l’artista a Parigi. Come il padre del free jazz, il musicista americano Archie Shepp, del quale in mostra è presente uno splendido ritratto. I temi di questa serie ruotano attorno al rapporto tra il musicista (ovvero l’artista) e il suo pubblico: la solitudine del palcoscenico che mette sotto i riflettori miserie e grandezze dell’uomo, il problema della comunicazione con una platea talvolta indifferente, ma anche l’estasi che viene dalla condivisione con il pubblico di un'esperienza estetica esaltante.
Un altro ciclo recente è invece dedicato a interni e paesaggi con nudi. Qui fonte d’ispirazione sono da un lato le fotografie erotiche dell’Otto e Novecento, dall'altro i capolavori dei grandi maestri. Ad esempio, nel dipinto del 2006 intitolato “La strada II”, che raffigura una prostituta nell'androne di un vecchio edificio e un giovane seduto su uno sgabello intento nella lettura di un libro di preghiere, il richiamo è al Tiziano di Villa Borghese, “Amor sacro e amor profano”. Nella sua galleria di personaggi sfilano dunque ricordi, speranze, paure e suggestioni infantili, in un mix di rimandi, assonanze, citazioni e messaggi che Klapheck si diverte a mescolare, com'è nel suo stile, vero e falso, realtà e finzione, non per disorientare o depistare lo spettatore, ma per arrivare a una più profonda conoscenza del mondo. “La pittura non cessa mai di stupire, ci sono sempre sorprese anche per l'artista. La vicinanza della pittrice Wanda, i suoi consigli, mi sono indispensabili per fare chiarezza”, conclude Klapheck. Gli fa eco Wanda Richter-Forgách: “Il giudizio dell'altro è prezioso in ogni fase del lavoro. Siamo l'uno il critico più severo dell'altro”. Nata a Berlino, alle spalle la lunga esperienza, dal 1963 al 1986, come costumista per oltre duecento produzioni teatrali a fianco dello scenografo Thomas Richter-Forgách, la pittrice si è fatta apprezzare per alcune delicate nature morte e per i suoi “Ignudi illuminati”, la serie di nudi dipinti a partire da bozzetti realizzati durante soggiorni nei luoghi termali. Ora a Varese presenta un nuovo ciclo di paesaggi, dipinti ad acrilico negli ultimi cinque anni, nei quali acqua, cielo e terra sono le quinte di un teatro dell'immaginazione. Soggetto delle tele non sono infatti luoghi precisi, facilmente identificabili grazie a qualche indizio. La sfida della pittrice non è la descrizione di un ambiente, ma la registrazione di un'illuminazione, di un'epifania. La pittura non è racconto, ma visione. I modelli vanno da Rembrandt a Bellini, a Van Gogh, ma è Marc Rothko la grande ispirazione. La produzione giovanile dell'artista americano, caratterizzata da una figurazione surrealista e da paesaggi fantastici, manifesta già la predilezione per il colore puro, sempre intenso e di vibrante luminosità, sul quale Rothko fonderà la sua successiva adesione a un astrattismo contraddistinto dagli ampi campi di colore e dall'attento studio dei rapporti cromatici. “In realtà Rothko nelle interviste dichiarava di non considerarsi affatto un artista astratto”, dice Wanda. “Non dipingeva quadri astratti, la pittura era per lui la trascrizione fedele della sua vita spirituale. Ed è questa anche la mia ambizione”. Si spiega così la scelta del titolo “Paesaggi dell'anima”, che allude a una forma di romanticismo contemporaneo, dove la Natura è intesa come luogo dell'immersione e dell'esperienza spirituale dell'individuo e la pittura sgorga dall'urgenza di dare espressione alle inquietudini dell'anima. Per cogliere quella forza creatrice che è nella Natura e che parla come per simboli dell'interiorità dell'uomo, l'artista si dedica a un attento e partecipe studio del paesaggio. Wanda ha sempre avvertito una forte esigenza di concretezza e il punto di partenza è dunque il dato reale, anche se non immediatamente riconoscibile perché filtrato dall'io dell'artista. Astrazione per Wanda vuol dire ridurre all'essenza il sentimento della natura, e gli strumenti per raggiungerla sono il blu, il rosso o l'arancio tanto amati da Rothko. L'interpretazione del paesaggio avviene dunque attraverso il medium del colore, talora più soffuso, stemperato e morbido, talaltra più denso, irruente e viscerale. Predilige determinati momenti del giorno, la mattino o la sera, quando l'ambiente naturale si presta a più dirette correlazioni psicologiche. Nascono così visioni vibranti di colore che divampa sulla tela con una vitalità intensa, come un incendio improvviso che tutto illumina prima di tutto distruggere. Vita ed energia prima della morte e della cenere.
Talvolta la tela è tagliata in due dalla linea dell'orizzonte (“Speranza, stella della sera”, “Fiume della vita”), come se cielo e acqua se la contendessero: “Una lotta senza fine tra elementi contrapposti”. Nelle tele nate durante un soggiorno a Parigi gli avversari sono invece il fiume e l'architettura del ponte. Nelle acque della Senna l'artista vede risplendere una bellezza pura, totale, incontaminata che viene solo parzialmente contenuta dagli argini. Sotto le arcate del ponte la vita continua a scorrere.
Licia Spagnesi |
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DREAMS ON PAPER
Dopo il successo della mostra al Kunstpalast di Düsseldorf, Konrad Klapheck presenta alla duet gallery un’ampia serie di disegni realizzati a carboncino su carta colorata: si tratta di eccezionali inediti che raccontano un grande mosaico di visioni e fughe della mente che l’artista va componendo dagli anni ’60, il tempo del suo esordio nel mondo dei surrealisti parigini.
Osservando i microcosmi fantastici delle opere esposte a Varese, lo spettatore può respirare proprio l’atmosfera trasognata racchiusa nel famoso motto “Liberté, Poésie, Amour” che Klapheck con incantamento e leggerezza ha fatto suo, bilanciandolo con il rigore e la studiata costruzione geometrica delle grandi opere a olio e ad acrilico.
La linea costruisce sulla carta un movimento libero di associazioni ed evocazioni, che dialogano - con echi straordinari - con gli acquerelli e i disegni a carboncino di Wanda, capace di affidare alla simbologia dei fiori e dei colori un messaggio di sentimenti profondi e vibranti.
La rappresentazione del mondo floreale, tema caro come soggetto isolato soprattutto all’Ottocento, è dall’artista di Düsseldort declinata con toni inusuali e diviene portavoce di una inquietudine esistenziale che si risolve ogni volta in un orgoglioso e disperato coraggio di vivere. |
duetart gallery
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